Fame di dati. Come il delivery ha cambiato la ristorazione
È stato, almeno nell’immaginario collettivo e nella percezione quotidiana di molti, il settore più colpito e più rivoluzionato dall’emergenza Covid. Parliamo della ristorazione, che secondo di dati Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) nel corso del 2020 ha perso 22 mila attività e 242 mila posti di lavoro. E che ora, con le progressive riaperture della primavera 2021, vive un prevedibile rimbalzo, con un incremento del 75% delle prenotazioni rispetto al maggio 2020, come racconta il portavoce italiano della app TheFork Andrea Arizzi a Silvia Pagliuca sul blog La Nuvola del Lavoro del Corriere della sera.
Ma la ripartenza non significa tornare al modello pre-Covid, perché il virus ha rappresentato l’elemento scatenante di una disruption digitale destinata a restare nei modelli di business e nelle abitudini di consumo. Lo hanno testimoniato gli ospiti di un appuntamento su Clubhouse promosso da Innovazione made in Italy, il club di Blum sul social «vocale»: Daniele Contini, country manager per l’Italia di Just Eat, Cris Nulli, podcaster e fondatore di Appetite for Disruption, Tunde Pecsvari, fondatrice di Macha Café, e Gianluca Maruzzella, ceo e co-founder di Indigo.ai.
Il ruolo dei dati in cucina
«Per molti nell’ultimo anno il digitale ha rappresentato l’unica fonte di revenue – afferma Cris Nulli – e ciò ha portato ad alcune conseguenze, tra cui l’importanza assunta dai dati: conoscere i propri clienti, avere in alcuni casi una propria app, curare con più attenzione la propria presenza sui social».
Temi di cui si occupa da tempo Appetite for Disruption, un think tank nato nel 2017 in partnership con alcune catene di ristorazione di nuova generazione, che offre eventi, insight e analisi sulle tendenze del mondo food.
Il difficile equilibrio dell’algoritmo
Just Eat è una delle principali piattaforme per la consegna a domicilio. Daniele Contini, country manager per l’Italia, racconta come il primo lockdown sia stato «un momento difficile anche per le piattaforme, perché a marzo 2020 gran parte dei ristoranti hanno chiuso del tutto. Nell’ultimo anno quelli che hanno puntato sul delivery hanno visto crescere il loro giro d’affari – spiega Contini –, ma bisogna considerare che per molti ristoratori le consegne a domicilio rappresentano un trade off rispetto al servizio che si offre in sala». Serve insomma un equilibrio tra il servizio in presenza e quello a domicilio.
Equilibrio è anche una parola chiave per comprendere il funzionamento degli algoritmi che regolano le app come Just Eat, dal lato del consumatore. «Il nostro algoritmo si basa sull’intelligenza artificiale ed è in continua evoluzione – afferma Contini –. Vive nell’intersezione tra la volontà di offrire alle persone ciò che piace loro e allo stesso tempo la necessità di offrire qualcosa di nuovo, perché tutti vogliamo provare nuovi tipi di cucina. È un equilibrio non facile da trovare».
Format integrato tra sala e delivery
Tunde Pecsvari, fondatrice di Macha Café, racconta la sua esperienza in prima persona. «La pandemia ha definito due macro categorie di ristoratori – spiega –, chi aveva già un know how rispetto al delivery e chi, la maggior parte, non l’aveva mai fatto. Macha è stato concepito fin dall’inizio con un format integrato con un canale principale di vendita in sala o take away, che rimane il principale, e il canale rivolto al delivery». E si torna al concetto di trade off: «Sono due canali che funzionano con logiche differenti, si possono fare entrambi, ma non si possono fare nello stesso modo».
Non ogni menu è adatto al delivery. In questo giocano molti fattori: uno è la trasportabilità del prodotto, l’altro è il fattore esperienziale. Gustare un piatto tipico della cucina italiana al ristorante, ad esempio, è un’esperienza fatta anche di location, servizio, abbinamenti con vini particolari, atmosfera. Un mix di sensazioni che non si ritrovano a casa. Conta anche il fattore prezzo, oltre che quello della riproducibilità: il consumatore tende a ordinare a distanza un piatto che non riuscirebbe a cucinare facilmente da solo.
L’aiuto dell’intelligenza artificiale
A Gianluca Maruzzella è toccato il compito di raccontare come la potenza dell’intelligenza artificiale può aiutare la transizione delle imprese della ristorazione «tradizionale» verso il digitale. «Nei lunghi mesi scanditi dai Dpcm e dall’incertezza, l’intelligenza artificiale ha aiutato molti a capire meglio i desideri dei clienti, diventando un’arma in più per ogni attore del food» spiega il ceo e co-founder di Indigo.ai, che si occupa di soluzioni di intelligenza artificiale conversazionale.
Un’applicazione di soluzioni AI tra le più diffuse durante la pandemia è stato l’ambito del customer care. Gli utenti che navigano online cercano un supporto, hanno domande da fare, e saper rispondere in modo veloce e standardizzato si è rivelato un vero fattore competitivo. «Molti ristoratori che lavorano con il delivery non sono di origine italiana – spiega Maruzzella – e per loro interfacciarsi con l’utente in modo veloce è reso complicato dall’ostacolo della lingua. Gli assistenti virtuali in questo senso hanno rappresentato un grande aiuto».
Foto di copertina di Jesse Ballantyne da Unsplash
Foto centrale di Kelly Sikkema da Unsplash