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Stato innovatore cercasi. Le startup e il ruolo per il Paese

L’idea di trasformare, grazie alla stampa 3D, maschere da sub in respiratori per le terapie intensive ha fatto conoscere una startup italiana, Isinnova, a tutto il mondo. Un’altra startup, Uquido, in questi giorni ha reso disponibile il suo sistema «taglia-code» per tutti gli ospedali d’Italia. Due storie esemplari di creatività italiana che hanno messo in luce il contributo rapido e concreto che il mondo delle giovani imprese innovative può dare anche in questo momento di emergenza sanitaria. Non solo negli ospedali ma anche a supporto di tutte quelle filiere, dalla ristorazione al commercio di vicinato, che stanno trovando nelle piattaforme di e-commerce un piccolo canale di sfogo e sopravvivenza.

Eppure, mai come ora, le 11mila startup italiane e i loro sessantamila lavoratori sono state così a rischio. Non è un problema solo nostro, è un problema mondiale. Lo segnalava per primo, lo scorso 5 marzo, uno dei principali fondi di investimento americani, Sequoia: il 2020 sarà l’anno del Cigno Nero per le startup con investimenti in calo, difficoltà di cash flow, rottura delle supply chain. L’allarme sta ora rimbalzando in Italia: VCHub, l’associazione del Venture Capital ha lanciato al governo una proposta in 8 punti per uno «Startup emergency act». Simile l’appello di Italia Startup. Le proposte vanno dall’incremento degli sgravi fiscali per chi investe in queste aziende, all’aumento del credito d’imposta fino al prolungamento di un anno dei contratti a tempo determinato in scadenza. Tutti provvedimenti simili a quelli che gli altri paesi europei stanno già adottando. Ma c’è una misura, tra quelle proposte dall’associazione presieduta da Fausto Boni, che vale più di tutte e va dritta al punto: aprire a startup e PMI Innovative gli albi fornitori autorizzati di tutte le aziende a partecipazione pubblica.

Facciamo l’esempio dello smart working e della didattica a distanza: centinaia di aziende e Università stanno utilizzando le migliori piattaforme sul mercato. E sono quasi tutte statunitensi. Le azioni di Zoom grazie al coronavirus sono passate da 60 a 150 dollari in tre mesi, con un incremento di due volte e mezzo. Non esistono piattaforme italiane? Sì, ma solo una, Weschool, è stata inserita dal governo nella piattaforma Solidarietà Digitale. Ottima iniziativa: ma raccogliere quanto c’è di già affermato sul mercato e utilizzarlo al meglio è solo il primo passo. Il secondo deve essere necessariamente un altro: lo Stato investa in tecnologia e aziende italiane per rispondere a questa crisi, investa in aziende sane che una volta passata la nottata possano crescere e dare opportunità a chi inevitabilmente rischia di rimanere a piedi. I sostegni stanziati con il decreto “Cura Italia” e i successivi, sono doverosi ma rischiano di rivelarsi vani se non si fa largo subito una visione del Paese e del suo sviluppo sostenuta da una vera politica economica per questa nuova fase. Volenti o nolenti, dovremo sviluppare nuove metodologie e per farlo potremmo dare, allo stesso tempo, una mano al nostro Paese investendo in startup e aziende italiane, trasformandoci ancor di più da acquirenti (e formidabili adattatori) a produttori di tecnologia.

Luca Barbieri

articolo pubblicato su Corriere dell’Alto Adige, Corriere del Veneto e Corriere di Verona

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