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Wearable. Misurare il corpo, tra salute e nuovi «neurodiritti»

«Il nuovo business di Apple è tenerci vivi». Il titolo di un articolo del Post di qualche giorno fa è efficace nel riassumere una tendenza del mercato tecnologico, che guarda con sempre maggiore interesse alle applicazioni per la misurazione dei parametri vitali.

Tendenza divenuta più evidente nel recente Apple Event del 7 settembre, quando l’azienda di Cupertino ha presentato il nuovo Apple Watch 8 il cui piatto forte sono una serie di applicazioni che promettono di «mantenere abitudini sane» grazie a «sensori per la salute» in grado di inviare, tra le altre cose, notifiche che informano in caso di battito cardiaco irregolare e sulla presenza di ossigeno nel sangue, ma che possono anche «accorgersi» quando chi indossa il dispositivo è caduto, e inviare un messaggio di SOS anche quando si è fuori portata delle reti di dati, grazie a un sistema di satelliti.

Non a caso, lo speech principale di Apple al prossimo Web Summit di Lisbona, il 3 novembre, sarà affidato alla conduzione di Sumbul Desai, vice presidente e responsabile salute della mela, che affronterà il tema dell’intersezione tra health e tecnologia. Lo scorso anno, come abbiamo raccontato, la parola chiave era il Metaverso.

Le mosse di Big G e Fujifilm

Non era difficile aspettarselo, dopo che la pandemia aveva lanciato il filone health-tech come uno dei trend di consumo del 2021. Tuttavia la tendenza, anche ora che il Covid è meno centrale nell’influenzare le nostre vite, sembra destinata a rimanere. Ci lavora ovviamente anche Google, che dopo aver acquisito Fitbit per 2,1 miliardi di dollari ora si prepara a integrare il know how della società, che crea dispositivi indossabili per il monitoraggio della salute, nel nuovo Pixel Watch il cui lancio è imminente.

Intanto la giapponese Fujifilm, partendo dal settore fotografico e ottico, da tempo ha allargato i propri investimenti al settore sanitario, e ha di recente messo piede in Italia. A Torino per l’esattezza, dove ha stretto un accordo con la Città della salute per l’installazione di una nuova piattaforma informatica in Radiologia, con l’obiettivo di ridurre le percentuali di errore e ridurre le attese, grazie all’utilizzo dell’intelligenza artificiale.

Il lato oscuro del self-tracking

La pratica del self-tracking, o per dirla in italiano dell’automonitoraggio, non è affatto nuova, come ricorda Lia Tirabeni, ricercatrice in sociologia delle organizzazioni all’Università Milano Bicocca, nel suo saggio «I dispositivi indossabili per il benessere» pubblicato sulla rivista Il Mulino – nel numero monografico «Il nostro digitale quotidiano» di settembre 2022, caldamente consigliato. Già in passato era diffusa la pratica di annotare misurazioni o altri dati, per finalità mediche o sportive. Le novità introdotte dai dispositivi diffusi negli ultimi anni sono due, scrive Tirabeni: «l’indossabilità: si indossano, accompagnandoci ovunque, quasi fossero estensioni del nostro corpo; e poi, l’automazione: consentono cioè di automatizzare l’intero processo di tracciamento».

Il Mulino

Tale cultura dell’auto-misurazione ha anche delle controindicazioni. «Attraverso la costante allerta su quel che con il corpo facciamo, questi strumenti favoriscono, di fatto, anche processi autodisciplinamento e autocontrollo, esasperandoli», scrive la sociologa, allineandosi a «una più generale tendenza al perfezionismo e alla performance a tutti i costi che pervade ormai ogni aspetto della nostra società, tanto da far parlare di performance quale “imperativo sociale”».

Uno dei rischi, insomma, è che mentre i risultati positivi sulla salute sono spesso tutti da dimostrare, la continua «datificazione» del corpo aumenti pericolosamente il nostro livello di ansia.

Non meno importanti le perplessità sollevate, in ambito medico, in merito alla validazione dei dati prodotti dalle app e alla tutela della privacy dei «monitorati».

Neuralink e la rivendicazione dei neurodiritti

Fin qui gli orologi smart che, si dirà, possiamo sempre scegliere se indossare o meno. Ma le frontiere del mercato guardano molto oltre, o meglio, dentro: esattamente nel cervello. A spostare più in là il confine del wearable ci ha pensato Elon Musk, che con la startup Neuralink – nata nel 2017 – ha impiantato un chip nel cervello di Gertrude, un maiale, durante una demo nel 2020. In quell’occasione il dispositivo si è limitato a mostrare l’attività cerebrale del suino su schermo, ma per il futuro l’obiettivo – chissà se e in quale misura raggiungibile – è ben più ambizioso: individuare in anticipo eventuali patologie neurodegenerative. Chiaramente, sugli umani.

L’applicazione è finita nel mirino del Garante della privacy, il professore Pasquale Stanzione, secondo cui, come ha scritto Wired Italia, «l’habeas mentem potrebbe diventare il fondamento della libertà individuale e dei diritti connessi alla persona in un mondo di macchine che ci leggono il cervello», così come l’habeas corpus è alla base dello stato di diritto.

Pionieri cileni

Con l’avanzare della frontiera tech letteralmente dentro il nostro corpo, fanno capolino anche i primi tentativi di normare questa «intrusione» per evitarne utilizzi dannosi, manipolatori o irrispettosi dei diritti umani. A fare da apripista, nel dibattito, è stato il Cile, dove nel 2021 il parlamento aveva approvato l’introduzione nella nuova Costituzione cilena di un articolo in difesa dei «neurodiritti».

Sappiamo come poi è andata: il 4 settembre 2022 i cileni hanno bocciato, in un referendum, la proposta di nuova carta costituzionale, e dunque anche il primo riconoscimento formale dei «diritti del cervello». Una battuta d’arresto che, è facile intuire, non rappresenta che il primo colpo di una battaglia di lunga durata per definire limiti e modalità del rapporto tra corpi e tecnologia.

Giulio Todescan
Content & media relations strategist, Blum

 

Foto di copertina di Luke Chesser da Unsplash

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